Da piccola scappavo di nascosto nel garage di casa, quando mio papà, imbianchino, preparava i colori per il giorno dopo. Mi mettevo lì, seduta sul gradino delle scale, ad annusare il profumo di vernice. E quando mio papà mi notava, mi invitava a provare i colori insieme a lui. Mi dava in mano un pennello piccolo, adatto alle dimensioni delle mie mani di 5 anni, e mi spronava a vedere se era il colore giusto sul muro del garage. Con reverenza usavo quello strumento con quel colore così liquido, che se non stavi attenta poteva sporcarti irrimediabilmente i vestiti, e piano piano lo stendevo sul muro. “Facciamolo asciugare e poi vediamo di che colore è diventato, meglio alla luce del sole”. E quando il colore era pronto mio padre mi chiedeva sempre: “Che ne dici, è il colore giusto?”
Negli anni quel rito è diventato parte di me, tanto da aspettare con trepidazione il momento di creazione dei colori. Per me, quella piccola goccia che si intrufolava in tutto quel bianco, dapprima pieno di sfumature, poi con un colore tutto nuovo, era una specie di magia. Quel rito mi è entrato così tanto nella pelle, che ne ho fatto un lavoro. E dopo aver frequentato il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti, ero io che prendevo il colore e dicevo a mio padre: “Che ne dici, è il colore giusto?”